Le ragioni della morte del calcio in Italia?

Simone Di Trapani
Simone Di Trapani 4 min lettura

Dopo Italia Macedonia al Renzo Barbera di Palermo che ha sancito l’eliminazione dalla fase finale dei mondiali di calcio, per la seconda volta consecutiva, possiamo affermare la morte del calcio in Italia. Lo sport che nel nostro paese ha sempre rappresentato più di un semplice gioco, uno spettacolo capace di fare sognare milioni di italiani, uniti come mai in nessun’altra occasione. Per 12 anni saremo stati fuori dai mondiali. Questo è un verdetto. Non ci sono precedenti nella storia di questo sport in Italia. Con la speranza che si possa partecipare al mondiale nord americano del 2026, allargato a 48 squadre.

Troppi stranieri? Errori tecnici? Colpa dei Club? Dirigenza della figc inadeguata? Probabilmente è tutto vero. Ma non è sufficiente a spiegare un disastro di simile portata. Bisogna scavare profondamente nella mutazione di questo sport in business anche a livello giovanile e dilettantistico per comprendere le vere ragioni della morte del calcio in Italia.

Se Juventus, Inter, Milan e qualche altra sono sempre state delle società funzionali a scopi economici e/o politici, più o meno diretti, il calcio in Italia è stato tenuto in vita da migliaia di società dilettantistiche. Si è cresciuti con un pallone nelle strade di periferia e in campetti di provincia in terra battuta. Ed é proprio grazie a queste società che questo sport è stato fucina di campioni. Ragazzi spesso cresciuti ai margini delle periferie metropolitane che hanno trovato riscatto e scalata socio economico calciando un pallone.

Le ragioni della morte del calcio in Italia

Se i paesi Sud Americani sono l’esempio lampante del calcio come riscatto individuale, le storie di Adriano e Robaldinho , quelle Angel Di Maria, Tevez o Maradona, di Alexis Sanchez o Arturo Vidal, sono autentici romanzi di vita. Narrazione di un riscatto lo sono state anche le vite di Valentino Mazzola, forse il più grande di sempre, di Gianni Rivera, di Antonio Cassano o Totò Schillaci. Cresciuti tra mille difficoltà giocando per strada, o in campetti dimenticati. Perché allora dalla leva degli anni ’80 non troviamo più cantori di questo sport?

Può essere che oggi i genitori di Cassano o Schillaci, ma forse anche quelli di Roberto Baggio, non avrebbero potuto iscrivere il proprio figlio ad una scuola calcio?  Oggi se non paghi rette mensili e abbigliamento sportivo, non giochi a calcio. Non si gioca per strada e non esistono campetti liberi dove qualche presidente di società dilettantistica, innamorato del calcio, scova campioncini. Far praticare questo sport è costoso e non tutti possono permetterselo. Quindi la prima selezione non la fa il talento, ma il censo. Una situazione peggiore di tanti altri sport Atletica, Volley, Basket, che si possono praticare gratuitamente nelle palestre scolastiche. Se poi qualche talento emerge, tra mille sacrifici delle famiglie, arrivano come avvoltoi procuratori senza scrupoli che fanno ruotare l’intera vicenda attorno alla chiusura di contratti senza tetto massimo.

Si è determinata così una condizione senza più speranza pochi talenti si affacciano nei club che possono farli crescere e quando arrivano a 18 anni vogliono già essere milionari. Allora non siamo più al capezzale di un malato in condizioni disperate, su cui sarebbe possibile agire, siamo nella condizione di dover piangere un morto. Perché al di là delle parole di rito che si diranno, delle colpe che si scaricheranno a vicenda, il verdetto è la morte del calcio in Italia. E la vittoria agli europei? Il nostro ultimo canto del cigno.

Condividi questo articolo
Lascia un commento