Che in Sicilia, da sempre, non si sappiano spendere i fondi pubblici è un fatto acclarato. Come è acclarata la lentezza di una macchina amministrativa che ha già fatto fallire imprese e filiere intere, e altre ne farà cadere. In questo quadro, l’abnegazione del presidente Renato Schifani è lodevole: continua a spronare assessorati e dipartimenti a “spendere, spendere, spendere”. Ma il punto non è la volontà; è l’architettura. La burocrazia siciliana è ancora fatta di corridoi dove veline cartacee passano di mano in mano, di piattaforme che si inceppano e non garantiscono equità e trasparenza—basterebbe ricordare l’Avviso 7 della formazione professionale—e di un formalismo che scambia il timbro per risultato. Senza una riforma strutturale, ogni appello resterà un fiato sul vetro.
I numeri del PNRR dicono più di qualsiasi editoriale. Su 16,05 miliardi destinati alla Sicilia, sono partiti pagamenti per 5,2 miliardi: il 32,72%. La rendicontazione—che è l’atto che conta davvero al tavolo europeo—si ferma a 1,26 miliardi, il 7,91%, per 23.496 progetti. Se guardiamo alla sola Regione come ente attuatore: 3.493 progetti, pagamenti per 491,3 milioni (27,31%) e rendicontazioni per 135,3 milioni (7,52%) su un plafond di 1,79 miliardi. L’aggiornamento di ottobre alza di poco l’asticella dei pagamenti al 27,92%. Nel frattempo il cronoprogramma corre: opere chiuse entro il 31 agosto 2026; richieste di pagamento entro il 30 settembre; valutazione della Commissione entro il 30 novembre. Ogni mese perso adesso vale doppio a fine corsa.
Schifani, di fronte a questa fotografia, ha scritto a 14 dirigenti generali e 9 assessori: richiamo alle responsabilità, accelerazione su spesa e rendicontazione, avvertimento sulle sanzioni e sulla possibilità di revoche di incarico. È un atto dovuto. Ma la verità è che, da decenni, all’ARS si litiga per le mance attorno a un malato in fin di vita. Il malato non ha bisogno di un’altra flebo: ha bisogno di un intervento radicale anti-burocrazia.
Il PNRR non è una mancia da spartire, è l’ultima occasione di modernizzazione. Ogni ritardo non è neutro: costa opere non fatte, posti di lavoro non creati, comunità che invecchiano.
Se davvero vogliamo “spendere, spendere, spendere”, dobbiamo cominciare col verbo che precede tutti gli altri: semplificare.
Altrove è accaduto. Prendiamo un caso: l’Estonia. All’inizio degli anni Duemila ha trattato la burocrazia come un collo di bottiglia esistenziale e l’ha smontata pezzo per pezzo. Identità digitale universale, principio “once-only” (la PA non può chiederti due volte lo stesso dato), firma elettronica obbligatoria, interconnessione dei registri pubblici, sportelli unici che sono davvero unici. Risultato: pratiche che si chiudono in ore, atti che non si stampano più, imprese che nascono senza pellegrinaggi, un ecosistema digitale che ha liberato energie imprenditoriali e attratto capitali. Non è magia: è progetto, disciplina, responsabilità.
È esattamente ciò che manca in Sicilia



